Movimento Apostolico Ciechi

In copertina

“Incontrarsi è fare comunità” 

Luce e Amore Anno LXXIV - N. 2 Aprile/Giugno 2024
Pubblicazione trimestrale del Movimento Apostolico Ciechi

 

Nessuno esiste senza gli altri  

e se gli altri non ci sono più  

smettiamo di esistere anche noi.  

Coloro che hanno il compito  

di costruire l’architettura della pace 

abbiano il coraggio di iniziare

combattendo l’odio e l’ignoranza

e costruendo con la propria vita

ponti di solidarietà e comprensione

e di amore.

Card. Matteo Zuppi

 

 

SOMMARIO

◼︎EDITORIALE

-L’incontro e la comunità
di Francesco Scelzo

LA PAROLA E LA VITA

Una comunità per condividere i doni
di don Alfonso Giorgio

InFORMAZIONE e ...

- Francesco Live
  di Simona D’Amato

- I giovani tra disincanto e desiderio e domanda di futuro
  di Ernesto Preziosi

- La Chiesa italiana a confronto su comunità e persone con disabilità  
  di Michela De Rosa

- La fatica dell’inclusione nelle diverse stagioni della vita 
  di Caterina De Luisi

SPECIALE

Verso il Giubileo 2025

Pellegrini di speranza, testimoni di libertà e servizi ai poveri nel tempo delle numerose guerre e della povertà dilagante

- Pellegrini di speranza alla ricerca di una strada per la pace
  di Angelo Scelzo

- Un approccio al ruolo del popolo e dei poveri nella storia dei giubilei

  di don António Hofmeister e don José Amaro Pombal

- Il Giubileo nella Bibbia
  di don Lucio Sembrano

- Il Giubileo interpella il MAC
  di don Paolo Braida

COOPERAZIONE TRA POPOLI E PROGETTI

-Essere catechisti in Africa
 di Violetta De Filippo

-Insieme per evangelizzare

-Oltre ogni pregiudizio

PROMOZIONE SOCIALE IN ITALIA

-Tavole con immagini a rilievo per i gruppi di catechismo dei bambini
 di Natascia Rosa

-L’inclusione dei disabili nelle comunità cristiane
 di Luigi Saccoman

-Echi del progetto Autonomie Possibili La testimonianza di una coppia di genitori
 di Tamara e Mauro Petrillo

RACCONTI DAL TERRITORIO

-Bergamo – Incontro dei gruppi della Lombardia
 di Margherita Merlini

-Ravenna – Incontro dei gruppi di Marche e Emilia Romagna
 di Riccardo Satriano

-Venezia – Il gruppo incontra il Patriarca
 di Luigi Saccoman

-Vicenza – Il gruppo si incontra nel ricordo di Giorgio
 di Nicola Ferrando

Editoriale

di Francesco Scelzo 

L’incontro e la comunità

L’incontro è il fondamento, la condizione per fare comunità; l’incontrarsi precede la costruzione delle relazioni e degli ambienti comuni del vivere, propri di una comunità. L’anno giubilare, nella tradizione biblica, si poneva come un evento per ricostruire e recuperare il cammino comune di un popolo, lo stare insieme, il fare comunità, favorire e ricostituire l’incontro tra le persone. Il Giubileo 2025, che andremo a celebrare, potrà essere un’occasione per ripensare il modo di essere comunità degli uomini nel nostro tempo. I responsabili delle Nazioni perseguono il bene comune dei loro popoli? I governanti del mondo sono protesi nella costruzione di una comunità degli uomini? Cosa potrà significare per tutti celebrare il Giubileo 2025? L’uomo del nostro tempo coltiva l’incontro?

Solitamente, anche quest’anno, nel mese di marzo l’ISTAT diffonde i dati sulla popolazione italiana dell’anno precedente; puntualmente, come ogni anno, anche quest’anno la presentazione di questi dati ci interpellano sul nostro essere comunità in Italia e, più in genere, nel mondo occidentale. La popolazione residente in Italia continua a diminuire e nel 2023 si attesta a circa 58 milioni 990mila. Il dato più sorprendente, che interpella tutti, è quello relativo alle nascite: prosegue la diminuzione delle nascite, iniziata nel 2008, e i dati provvisori dicono che i nati in Italia nel 2023 sono stati 379mila, con una diminuzione di 14mila unità rispetto al 2022, il numero più basso dall’unificazione del Paese nel 1861 quando in Italia vivevano circa 30 milioni di persone.

È ancora vivo il sentimento di comunità nel nostro Paese? Il fare comunità rimane un progetto di vita? Il cosiddetto “inverno demografico” è determinato, forse, anche da un diminuito sentimento comunitario?

L’esplosione nel mondo dei numerosi conflitti, pur già presenti, e l’intensificarsi di tensioni in alcune aree del mondo, come in molti Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, la guerra tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e palestinesi, ci raccontano di un mondo frammentato e frantumato nelle relazioni internazionali, nelle relazioni tra i popoli. La guerra rimane uno strumento di sviluppo delle relazioni tra i popoli, incurante di tutto ciò che essa produce come danni economici e come morti. Mentre alla fine degli anni ’80 si respirava nel mondo un clima di tensione verso una comunità globalizzata e il santo Papa Giovanni Paolo II con alcune delle sue Encicliche sottolineava e richiamava tutti circa la interdipendenza tra i popoli e tra le nazioni e tutti respiravamo questo clima per cui la comunità mondiale immaginava per sé un comune destino, in quest’ultimo decennio è emersa prepotente la crisi della globalizzazione, la frattura delle relazioni e il conflitto tra grandi potenze sia politiche sia economiche e tra gli stessi Stati oltre che tra i popoli. Nei primi mesi di quest’anno si parla di riarmo e più di qualche Paese immagina di tornare alla leva obbligatoria. La voce di Papa Francesco è rimasta l’unica voce nel mondo che invita gli uomini ad immaginare e a costruire la pace comune, ciò che è bene per tutti, a costruire la pace e invita i cristiani ad essere pellegrini di speranza in questo mondo frammentato. Ci propone, perciò, di celebrare il Giubileo 2025 come il tempo giusto per il “condono”, il perdono, il dono come progetto di vita per un mondo in Pace. È ancora pensabile, è possibile immaginare una comunità degli uomini in cammino per costruire il bene comune di tutti? È possibile coltivare la speranza di un mondo unito e in pace?

In Occidente negli ultimi 5 secoli si è sviluppata e si è affermata la civiltà che identifichiamo come moderna; alle sue origini, mentre da un lato vi era la grande speranza dell’apertura al mondo si immaginava anche ciò come una opportunità per acquisire ricchezze, mentre qualche filosofo, come Tommaso Moro, sognava l’utopia, il sogno di una società pacifica ove la cultura regola le relazioni umane e comunitarie, altri, come Hobbes, proponevano l’uomo come “lupo per l’altro”. All’origine della civiltà moderna, pertanto, si andò affermando che il potere dell’uomo nel mondo era soprattutto un esercizio di dominio, sia nelle relazioni tra i popoli sia nelle relazioni con il Creato; è questo il principio basilare dello sviluppo economico, sociale e culturale di questo lungo periodo durato 5 secoli in cui si sono succedute numerose rivoluzioni, come quelle sociali, quali la colonizzazione, come quelle politiche, quali le modifiche istituzionali nei diversi Stati, come quelle economiche, quali le diverse rivoluzioni industriali, e soprattutto quelle culturali, che hanno investito la visione stessa dell’uomo nel mondo e nella storia approdando al nichilismo, al relativismo e al soggettivismo narcisistico degli ultimi anni. La morte di Dio, celebrata come l’esito di questo percorso, ha sancito soprattutto la morte dell’uomo. L’orizzonte del divino apre l’uomo alla relazione ed è il fondamento della relazione. La presunzione del superamento dell’orizzonte del divino, dell’annientamento del divino produce la volontà di potenza dell’uomo e la negazione della dimensione relazionale dell’uomo. È giunto il tempo di una grande svolta antropologica, in cui l’uomo è chiamato a riscoprire la propria dimensione “religiosa”, spirituale, aperto e ospitale verso l’altro. Un uomo aperto sarà capace di relazioni, sarà capace di relazioni positive verso gli altri uomini e verso il Creato, potrà divenire il custode della terra come casa comune. Le relazioni diventeranno, così, occasione di incontro e non di scontro, di pace e non di guerra, di confronto e non di conflitto, e ci si incamminerà verso una umanità che potrà diventare comunità, comunità universale. Questa cultura, che pone al centro la persona e la comunità, che rinvia intrinsecamente alla relazione e all’incontro, e la cultura della modernità, che ha scelto come idee guida il progresso, i diritti, spesso declinati come civili ma in realtà soltanto individuali, l’indipendenza, non riescono a dialogare avendo strutture del linguaggio differenti e divergenti. Al progresso si è anche necessariamente unito il determinismo meccanicistico di una visione materialistica dell’uomo e i diritti sono diventati beni indeterminati e riconducibili all’arbitrio insindacabile di un uomo macchina i cui soli vincoli sono affidati alla sua volontà di potenza, alla sua indipendenza da ogni vincolo. La visione dell’uomo senza vincoli è un progetto di uomo simile a uno scalatore che vuole organizzare l’arrampicata senza chiodi, senza corde, senza piccozza, senza cioè i vincoli che rendono possibile l’esercizio del suo potere.

La grande questione antropologica è il potere, il potere dell’uomo.

I vincoli e le possibilità sono gli attrezzi per la scalata nella costruzione di una visione antropologica che vada oltre la visione dell’uomo moderno; l’esercizio del potere dell’uomo è un’arte spirituale di governo che si radica nella libertà, che è espressione della possibilità dell’uomo di concorrere con responsabilità al governo della creazione e dell’uomo stesso in quanto persona e comunità e non come dominio di un soggetto che utilizza e ordina la realtà sia del creato sia dell’uomo in nome di una presunta indipendenza nell’assumere come criterio di sviluppo dell’uomo il progresso e i diritti senza alcun riferimento ad un orizzonte che vada oltre se stesso.

Solo un uomo aperto ad un orizzonte che va oltre se stesso può sottoscrivere un “patto per la famiglia”, il family act che il Parlamento Italiano ha approvato due anni fa all’unanimità e oggi è caduto nel dimenticatoio. Come si può pensare ad una famiglia come un sistema di relazioni tra un uomo e una donna aperto e finalizzato alla nascita dei figli se indipendenza, progresso e diritti, così come da noi assunti in questo tempo, sono le nostre idee guida, le nostre visioni? Progresso, diritti e indipendenza sono i valori dell’incontro o, piuttosto, sono la ragione di un conflitto?

Una nuova visione dell’uomo fondata sull’incontro è la sola realtà che può dare futuro all’uomo stesso.

 

 

LA PAROLA E LA VITA

Una comunità per condividere i doni

di don Alfonso Giorgio

“In una comunità cristiana, tutto il problema è che ognuno diventi un anello indispensabile della medesima catena: soltanto quando tutti gli anelli reggono, fino al più piccolo, la catena non può essere spezzata. Una comunità che tollera dei membri inutili prepara con questo la sua rovina. Ecco perché dovrà assegnare ad ognuno un compito speciale, così che, nei momenti di dubbio, nessuno possa sentirsi inutile. Ogni comunità cristiana deve sapere che non sono solo i suoi membri deboli ad aver bisogno dei forti ma anche i forti non potrebbero vivere senza i deboli. L’eliminazione dei deboli significa la morte della comunità” (Dietrich Bonhoeffer, De la vie Communautaire, 95 Foi Vivante, n.83).

Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante internato in un campo di concentramento nazista, in un suo scritto, giustamente, affermava che anche i più deboli presenti in una realtà umana devono potersi esprimere, dare il proprio apporto perché proprio quando il proprio dono viene utilizzato si sta costruendo la comunità. Naturalmente tutto questo presuppone che ognuno conosca il proprio dono, il proprio peculiare carisma e che anche gli altri lo riconoscano e lo accettino.

Ognuno con il proprio dono può contribuire in modo responsabile alla crescita della comunità e il suo agire sarà efficace e determinante se sarà preceduto anche da un cammino personale di accettazione dei propri limiti, oltre che del proprio dono specifico. L’accettazione di sé, del proprio sé limitato, come pure di una propria disabilità, oltre che del proprio dono, ci permetterà di comprendere meglio anche i doni e i limiti degli altri.

Talvolta, per una sorta di mielosa compassione, ad una persona anziana, ad una persona con disabilità, o comunque ad una persona palesemente debole, ci si rivolge con espressioni consolatorie, del tipo “tu sei necessario perché solo la tua presenza per noi è un dono”, ma in realtà non si fa altro che cadere in quel terribile trabocchetto che è il “pietismo”, una sorta di consolazione che mortifica la libertà e l’autodeterminazione di una persona.

La Sacra Scrittura ci conferma che il dono più prezioso nella comunità si radica nella debolezza, perché è quando si è deboli e poveri che si ha bisogno degli altri, che li si chiama ad esercitare i loro doni, perché gli ultimi diventano i primi e, come ci ricorda San Paolo, solo quando si è deboli si è davvero forti (cfr. 2Cor 12, 10). Ma è compito della comunità ascoltare la Parola e attuarla nelle dinamiche relazionali di tutti i membri.

Il modo giusto per includere, integrare, rendere significativa la presenza di una persona “debole” in una comunità è aiutarla fino in fondo a riconoscere il proprio dono, fosse anche un dono di carattere eminentemente spirituale come, ad esempio, l’impegno della preghiera per tutti i singoli membri della stessa comunità al fine di assicurare loro un sostegno potente e rassicurante e continuativo nel tempo. Ovviamente un dono non lo si deve attribuire dall’esterno ma deve essere la persona interessata a scoprirlo in se stesso. Va detto anche che ogni dono ha un senso nella misura in cui viene compreso in relazione ad una specifica funzione, anche se dovrebbe essere sempre vissuto con amore, perché è l’amore che rende feconde le nostre azioni: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo.

Una comunità cristiana non può limitarsi a vivere e promuovere relazioni generiche, perché solo ponendo le fondamenta nella Parola di Cristo-Verità può far crescere la comunione. Quanto più ci impegniamo a vivere la Parola, tanto più impariamo a dirci ogni cosa nella verità, anche cose che magari costituiscono un problema per le nostre relazioni e ancor più perché, così facendo, costruiamo relazioni vere e profonde. La comunione, infatti, cresce e si rende visibile quando c’è sincerità, senso del proprio limite e desiderio di trasparenza.

Molto spesso l’esperienza nei gruppi, nelle comunità e talvolta nelle coppie, conferma che ci si ferma alle prime difficoltà relazionali, invece bisognerebbe aver il coraggio di dire la verità, anche se questo potrebbe far soffrire l’altro, dovrebbe essere però sempre un “dire la verità nella carità” (cfr Ef 4,15) come ci ricorda San Paolo. Quando si arriva poi a correggersi gli uni gli altri fraternamente vuol dire che si è giunti ad un livello tale di comunione da avvertire in pienezza l’amore di Dio in noi. Più siamo dentro quella circolarità di amore che passa dal Padre al Figlio nello Spirito Santo, più siamo uniti fra noi, tutti in relazione, più cresce la stima reciproca, la fraternità e la comunione quale frutto della verità.

La comunione di tutti coloro che compongono la comunità ci rende capaci di offrire al mondo una testimonianza credibile, “un annuncio di speranza che può essere accolto proficuamente solo se viene offerto da una comunità che vive in Comunione e non da un singolo che gioca con le parole e si esercita con l’accademia” (cfr. don Tonino Bello, Scritti quaresimali, Meridiana, Molfetta, 279-280).

Un altro aspetto che non può essere eluso nel cammino di crescita di una comunità è precisato da papa Francesco quando afferma nella bolla di indizione del giubileo “Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera” (Francesco, Spes non Confundit, Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025).

 In più occasioni e in molti documenti del Magistero, papa Francesco ci esorta ad essere Chiesa accogliente, una comunità, un’associazione ecclesiale che non fa discriminazioni e che ha il cuore tenero, di carne e non di pietra dinanzi alle necessità dei più deboli. Una Chiesa che non esclude mai e accoglie tutti. Tutto ciò vuol dire che il futuro di una comunità ecclesiale è segnato dalla capacità di accogliere e di restare sempre aperti alla Provvidenza e al quotidiano, certi che è sempre Dio all’origine di tutto e che in Gesù Egli veglia sempre su di noi con amore.

 

 

 

 

 

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