Immagine di copertina: immagine in penombra di una persona che ha una lucina accesa

La fede come fondamento di fraternità universale

Luce e Amore  Anno LXXI - N. 3 Luglio/Settembre 2021
Pubblicazione trimestrale del Movimento Apostolico Ciechi

 

Siamo chiamati a testimoniare nello Spirito Santo, a diventare paracliti, cioè consolatori. Sì, lo Spirito ci chiede di dare corpo alla sua consolazione. Come possiamo fare questo? Non facendo grandi discorsi, ma facendoci prossimi; non con parole di circostanza, ma con la preghiera e la vicinanza. Ricordiamo che la vicinanza, la compassione e la tenerezza è lo stile di Dio, sempre. . 

Papa Francesco 

 

SOMMARIO

◼︎EDITORIALE

- Spiritualità, fede e religioni
di Francesco Scelzo

◼︎LA PAROLA E LA VITA

- Stare insieme per comunicare e camminare
di don Alfonso Giorgio

◼︎InFORMAZIONE e ...

- Non si può dare per Carità ciò che è dovuto per Giustizia
la Caritas compie 50 anni di
Andrea La Regina

- Passione per il sociale e per l’economia nell’impegno di Giuseppe Notarstefano
di Gianni Di Santo

◼︎SPECIALE
I monti della Fede nell’unico Dio
Il dialogo interreligioso tra Ebrei, Cristiani e Musulmani

- Le tradizioni abramitiche: prove di dialogo  
anti-protagonista per eccellenza
di Gaetano Sabetta

- Dialogo con Ebrei e Musulmani
di Andrea Adamo 

- Ho incontrato un musulmano...
di Gianluca Padovan 

- La gioia della Rivelazione - riflessione a partire  
dalle Scritture fra Cristiani e Musulmani
di Elena Dini

◼︎PROMOZIONE SOCIALE IN ITALIA

- Il progetto di vita in una interessante pubblicazione in libreria
di Tillo Nocera

◼︎RACCONTI DAL TERRITORIO

La Prima Comunione di Stefano
di Caterina De Luisi

Buone prassi - l’esempio di una parrocchia bergamasca
di Margherita Merlini

Bologna

finalmente insieme
di Renata Covito

Macerata

il gruppo ricorda Maurizio e propone l’iniziativa della lettura in rete
di Giovanni Marresi, Giuliana Gaggiotti

Milano

un incontro molto toccante
di Caterina De Luisi

Ravenna

un incontro di condivisione e di preghiera
di Maria Grazia Seva

◼︎COOPERAZIONE  TRA POPOLI E PROGETTI

- La scomparsa di padre Aldino Amato 
di Luigi Vieri

- Un amico che non dimenticherò
di Carla Casnedi

◼︎RACCONTI DAL SUD DEL MONDO
Difiidi di Bassar –
l’attività del centro oftalmico
di Moïse A. Tchapo

◼︎LA TESTIMONIANZA

- Uno strano caso - un prete ritorna in corsia
diFabio Stevenazzi

 

Editoriale

di Francesco Scelzo 

Spiritualità, fede e religioni 

Il tema della fede è tema decisivo per l’uomo del nostro tempo come per l’uomo di ogni tempo; tale tema è intimamente connesso con il tema della vita e della libertà, dell’uomo stesso. L’uomo è per sua natura costitutivamente aperto all’altro e tale apertura è condizione determinante ed essenziale del suo essere; è la condizione che fa dell’uomo un essere proiettato al futuro e perciò teso verso l’“aldilà”. La trascendenza, pertanto, pari alla relazione con l’altro, è un tema che coinvolge ogni uomo, non solo il credente. È per questo che l’uomo, soggetto di libertà e aperto al futuro, un essere vivente, è insieme un essere spirituale e un essere storico, immerso nella vita, nelle relazioni e nella storia. Nella storia si collocano anche le “religioni”; la religione è l’espressione positiva, ciò che appare e viene rappresentato attraverso atti liturgici o eventi, di una sua fede, di un suo credo.

Cos’è la fede? Chi è il credente? Esiste, e chi è, il non credente? Chi è Dio? Cos’è una “chiesa”? Porsi tali domande, porsi domande appartiene solo all’uomo, all’uomo di ogni tempo, all’uomo di sempre. Queste domande sono risultate cruciali e decisive nella vita di due martiri del Novecento: un teologo e pastore luterano, Dietrich Bonhoeffer, ucciso dal nazismo nel campo di concentramento di Flossenburg il 9 aprile 1945, e il pope ortodosso, parroco appena fuori Mosca, assistente spirituale del dissenso, padre Aleksandr Men, ucciso, probabilmente, in uno degli ultimi colpi di coda del comunismo il 9 settembre 1990. Entrambi scrivono, in modo efficace e terribilmente chiaro, cos’è per loro la fede in Dio, chi è il credente, cos’è una comunità di fede. Entrambi si interrogano sul senso della fede per l’uomo adulto, per l’uomo moderno al tempo della secolarizzazione: ha ancora senso pensare a Dio come onnipotente? Quale è il significato vero di trascendenza? Quale è il significato vero di appartenenza alla Chiesa? Quale è il significato del dialogo con l’uomo nel nostro tempo? La vita e la testimonianza di questi due credenti in Gesù Cristo e i loro scritti ci illuminano su questi interrogativi.

Padre Men riusciva a scrivere, chiedendoci di non ridere, persino che l’ateismo è una grazia, un dono di Dio; è vero! L’uomo che sceglie di non credere è testimone di una fede; è, come scriverebbe Paola Chiarella, un diversamente credente. Se l’uomo non è “materia umana”, e non è materia umana, non può non essere che credente, aperto all’oltre e all’altro, teso al futuro, semplicemente un vivente.

Le lettere di Bonhoeffer dal campo di concentramento, raccolte in “Resistenza e resa”, sono una fonte di una inaudita chiarezza sul senso della fede in Dio e sul significato di Chiesa. Egli scrive: “È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio”. La trascendenza e l’onnipotenza interpellano Bonhoeffer e interpellano anche noi; Dio non può essere pensato come una realtà trascendente nel significato di un essere al di fuori della nostra vita, né come una realtà onnipotente per intervenire come un “deus ex machina” per supplire ai nostri limiti, alle nostre fragilità. “Dio vuol essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte”; Dio ci interpella in tutte le pieghe della nostra vita. La Chiesa, poi, è al “centro del villaggio”, investe l’intera vita delle persone; si è comunità cristiana tutto il giorno e tutti i giorni e in ogni luogo dell’esistenza umana. Per Bonhoeffer Dio si incontra negli altri e solo nella relazione con gli altri, tutti gli altri, si fa Chiesa. È nell’agire quotidiano che si è credenti; alla consapevolezza del limite del suo agire, per Bonhoeffer si accompagna però nel cristiano anche la certezza che la sua azione viene affidata alle mani di Dio, a colui che la può portare a compimento: e questa è la vera fede cristiana.

La modernità, il tempo della civilizzazione per eccellenza, ha celebrato come una conquista del pensiero la separazione tra politica e religione; si è ritenuto così di liberare l’uomo da vincoli di dipendenza, dalla trascendenza e perciò dalla religione. Si è pensato di riservare alla fede uno spazio “recintato”, tanti spazi recintati quante potessero essere le religioni, ma soprattutto, con la costruzione di tale recinto, liberare la comunità umana che finalmente è diventata “laica”. È approdato, nei fatti, come sostiene il filosofo francese Rémi Brague, al nazismo e al comunismo, ciò che noi chiamiamo totalitarismi. È approdato, soprattutto, alla scissione tra dimensione spirituale e dimensione storica dell’uomo, credendo di poter annientare la prima riducendo l’uomo a “materia umana”, o, come più comunemente si usa dire, “a ciò che mangia”. Si ricorre alla “laicità” per affermare l’incomunicabilità tra due territori: il territorio della storia e il territorio della spiritualità, o della fede, o della religione, non riconoscendo a queste alcuna differenza. Quest’ultime sono soltanto una libera espressione di chi ritiene di chiudersi in una religione. È vero che nella storia le religioni, a volte, sono state strumento di conflitto con l’altro, sono state strumenti di chiusura all’altro; la fede, tuttavia, non può essere ridotta a una delle religioni. Anche oggi, e anche nella logica della cultura moderna, le religioni sono viste come “vincoli”, come “recinti”, come strutture chiuse. Ciò accade se di una fede viene colto soltanto la rappresentazione positiva di essa attraverso convinzioni, definizioni, organizzazioni e celebrazioni, tutto ciò separato dalla vita, dalla vita di tutti gli altri. Ciò accade anche nel confronto tra le religioni e anche nel dialogo interreligioso.

In realtà, è impossibile la scissione tra fede e vita, anche nella logica e nella prospettiva della modernità; la celebrata “laicità”, spesso colta come l’elemento caratterizzante di chi tiene separata la propria fede dalla vita, e soprattutto dallo Stato e dalla vita pubblica, è una forma di “fede”. Del resto, come in modo brillante ed efficace rileva Rémi Brague, la laicità è propria della religione: laico è il membro di un popolo che si raduna, che converge intorno a un messaggio di salvezza; laico, come membro del popolo, è uno dei termini usati dalle comunità cristiane fin dalle origini. Non è un caso che, pur nella povertà di termini della lingua greca antica, ci sono tre sostantivi per definire il popolo: ethnos, o ethos, che sta per “gente comune”, identifica un popolo in quanto tale, con comuni caratteri; demos identifica il popolo “della città”, una entità politica, il popolo che in latino è civitas, la cittadinanza; laos, scrive in maniera brillante Rémi Brague “è il popolo che viene unificato dalla chiamata liberatrice di Dio. Laos, e dunque laico, è ogni uomo che sin dalla sua liberazione da un Egitto, geografico o spirituale poco importa, è stato messo in rapporto immediato con Dio”. Forse non è un caso che la modernità abbia utilizzato il termine laicità per indicare ciò che è proprio dell’uomo, ciò che è proprio di un popolo in quanto comunità umana; è, forse inconsapevolmente, l’atteggiamento dell’uomo che in quanto uomo si coglie come essere spirituale, radunato solo dalla tensione dell’andare oltre, dell’aldilà.

È illusorio scindere la fede dalla vita; è illusorio negare la dimensione spirituale dell’uomo. L’uomo che nega la dimensione spirituale non può non approdare che al nichilismo. Tale scissione non può essere giustificata dal fatto che nella storia le religioni sono state, o sono, a volte, strumenti di chiusura. L’uomo è per sua natura aperto all’altro, è in dialogo con l’altro. Il dialogo interumano, come quello interreligioso, esige il superamento dei recinti e l’abbattimento dei muri, comunque costruiti. La comunità degli uomini deve recuperare il sentimento vero dell’“essere laos”, un unico popolo radunato per la liberazione, laos, e dunque laico, “è ogni uomo che sin dalla sua liberazione da un Egitto è stato messo in rapporto immediato con Dio”, cioè si è riconosciuto come essere spirituale.

È necessario comprendere che la fede non è riducibile a una religione; è esperienza umana, determina l’esistenza di tutti, credenti e non credenti. Essa traduce in esistenza concreta la natura stessa dell’uomo che è insieme spiritualità e storicità. Per la condizione spirituale l’uomo è libero e aperto al futuro, per la fede interpreta la propria vita e ciò vale anche per chi ha la fede di non credente o è diversamente credente.

La Parola e la vita

Stare insieme per comunicare e camminare

di don Alfonso Giorgio

Nell’anonimato dell’urbanesimo moderno e della massificazione di oggi, spesso senza rapporti veri anche nelle comunità tradizionali, sentiamo tutti il bisogno di stare insieme e ritrovarci. La ricerca del gruppo nel senso più ampio del termine, il desiderio di rapporti più veri e intimi, effettivamente favoriscono il sorgere e prosperare di tante comunità facilitando il perseguimento degli obiettivi di comunione tra chi vi partecipa.

Questa necessità l’abbiamo avvertita particolarmente in questo tempo segnato dalla pandemia e lo si è evidenziato ancor più con quello che i più chiamano: “distanziamento sociale”. A tal riguardo, personalmente io non sarei tanto incline ad usare questa espressione. Non credo che un virus possa avere un così grande potere da distanziarci oltre la fisicità. Piuttosto parlerei di “distanziamento fisico” di sicurezza, anche perché la socialità, la socializzazione sono sempre possibili e non potranno mai essere eluse. È nella natura dell’uomo socializzare e camminare insieme agli altri, in qualunque modo questo avvenga e non se ne può fare a meno. Infatti, nonostante il continuo processo di massificazione e spersonalizzazione contemporaneo, accompagnato in questo periodo anche dalle esigenze di distanziamento sanitario, ci si aggrega ancora e, pur con modalità diverse e nuove, si socializza. Con un linguaggio contemporaneo potremmo parlare di “rete sociale”. Le reti sociali, infatti, mettono insieme più persone per diverse ragioni: lavoro, casualità, vincoli affettivi e famigliari, ecc. La ricerca scientifica in questo ambito, a diversi livelli di approccio disciplinare, conferma questa evidenza e, in effetti, sono in molti a poterne beneficiare e trovare in queste forme di aggregazione una più rapida soluzione dei problemi oltre che una più facile gestione delle varie organizzazioni, permettendo a tutti gli individui che ne fanno parte di raggiungere i propri obiettivi.

L’uomo non può modificare la sua natura. In ogni persona sarà sempre impellente la ricerca di un “tu” con cui relazionarsi e ritrovare se stesso, unitamente al desiderio di comporre l’indispensabile “noi”. Non siamo fatti per restare soli: “non è bene che l’uomo sia solo” (Genesi 2, 18). Paradossalmente nella società in cui viviamo, fortemente urbanizzata e impostata su orizzonti troppo individuali e individualisti, molto spesso si parla dell’urgenza di socializzare, e con l’avvento dei cosiddetti social vengono apparentemente facilitate le comunicazioni e gli “incontri”, ma non è sempre così. Indubbiamente la comunicazione interpersonale più autentica ed efficace è quella che “accade” quando due o più persone si incontrano, si guardano, si ascoltano e si toccano, magari con una stretta di mano o un abbraccio. Per le persone non vedenti poi, questo tipo di comunicazione diventa fondamentale proprio per la necessità di attivare tutti gli altri sensi nell’incontro. Non c’è niente che possa uguagliare una comunicazione così naturale e umana. La comunicazione attraverso le tecnologie è sempre incompleta e sostitutiva di quella reale. Il virtuale non può superare il reale e non di rado anziché favorire l’incontro può deteriorarlo a causa di possibili fraintendimenti, cattive interpretazioni di gesti o parole dette. Tra l’altro viene meno anche un linguaggio non verbale che spesso è fondamentale nell’eloquio. Quel che è certo è che non possiamo vivere se non insieme, in comunione, in una comunità e socializzando tra noi. Nella ricerca della comunione, comunque, si intrecciano tante dinamiche: motivi sociologici che invitano alla aggregazione in un mondo socializzato, pur non comunitario, ma anche motivi psicologici per un innato bisogno di misurarsi con l’altro e crescere nel gruppo.

La nostra vita è un cammino da farsi insieme. «L’uomo è un essere in cammino. Per tutta la vita è chiamato a mettersi in cammino, in continua uscita da dove si trova: da quando esce dal grembo della madre a quando passa da un’età della vita a un’altra; dal momento in cui lascia la casa dei genitori fino a quando esce da questa esistenza terrena. Il cammino è metafora che rivela il senso della vita umana, di una vita che non basta a se stessa, ma è sempre in cerca di qualcosa di ulteriore. Il cuore ci invita ad andare, a raggiungere una meta. Ma camminare è una disciplina, una fatica, servono pazienza quotidiana e allenamento costante. Occorre rinunciare a tante strade per scegliere quella che conduce alla meta e ravvivare la memoria per non smarrirla. Camminare richiede l’umiltà di tornare sui propri passi e la cura per i compagni di viaggio, perché solo insieme si cammina bene. Camminare, insomma, esige una conversione continua di sé» (Francesco, Preghiera ecumenica, Ginevra, 21 giugno 2018).

Si può camminare insieme ma si può anche stare insieme per camminare. Può sembrare un cavillo linguistico ma, una cosa è dire: camminare insieme; un’altra è dire: insieme per camminare. Quando parliamo di cammino non diciamo niente di nuovo perché, sul piano della fede non esiste il “fai da te della religione” e nemmeno su un piano umano, abbiamo sempre bisogno dell’altro per confrontarci, per sostenerci vicendevolmente. «Il risultato tragico che spesso sperimentiamo: ogni volta che si annulla l’avverbio “insieme”, si annulla anche il verbo “camminare”. Se vogliamo perciò camminare, dobbiamo metterci insieme. Riscopriremo il gusto dell’impegno, il sapore della lotta, la percezione della crescita, il coraggio dei gesti audaci, l’ottimismo non solo della ragione ma anche della volontà» (A. Bello, Insieme per camminare in “Diari e scritti pastorali”, Mezzina, Molfetta 1993, 288). Importante quindi è comunicare, non rinunciare mai alla relazione con l’altro e, possibilmente, stare insieme per camminare.

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